The Handmaid's Tale 4: Recensione del Settimo Episodio della Stagione
Scritto da: Maria Anna CappelleriData di pubblicazione:
Attenzione: questo articolo contiene spoiler
Un episodio che somiglia ad un thriller psicologico, quello di The Handmaid's Tale 4 andato in onda questa settimana.
Home, casa. Ma non è la sua casa, o il suo paese, né la sua famiglia o i suoi amici. E June non è più June.
Dopo l’approdo rocambolesco in terra canadese accolta dal marito, la protagonista viene raggiunta dai rappresentanti del governo degli Stati Uniti che la accompagnano in un albergo di lusso, sede dei rifugiati politici VIP. Di sicuro un bel salto, rispetto alla frugalità di Gilead e alla miseria di Chicago in piena zona di guerra.
Lì ha modo di confrontarsi con Luke: vengono fuori i sensi di colpa reciproci e nei confronti di Hanna. June decide di raccontare al marito il primo incontro avuto con la figlia, e di omettere l'ultimo, struggente e sofferto. E non è chiaro se lo faccia per proteggere più Luke o se stessa.
Quando arrivano a casa, finalmente riabbraccia Nichole, ma capiamo che il legame con Nick è più reale e complesso di quanto potessimo pensare.
È nelle scene successive, tuttavia, che l’atmosfera si incupisce: innanzitutto il palese disagio di June all’idea di rimanere sola con il marito e poi, lo “shock culturale” (come lo definisce Moira) del supermercato, dove il logo di un’acqua scatena nella protagonista il ricordo di tutti gli abusi e le violenze subiti negli anni passati.
Durante la serata trascorsa con Moira, Emily e Rita, però, la scoperta della gravidanza di Serena fa da vero e proprio trigger: June va da lei e la affronta con una ferocia che forse non avevamo mai visto prima. Ed è con la stessa ferocia che, tornata a casa, conduce il rapporto sessuale con Luke.
Sindrome post traumatica da stress
“È patologica. È una sociopatica. È tossica e brutale. È un mostro, e recita costantemente".
"Da cosa pensi che sia spinta"?
"Dall'odio e dalla rabbia. E sotto tutto quello non c'è nulla a parte la pura infelicità. E farebbe qualunque cosa pur di non sentirsi in quel modo, qualsiasi cosa per stare bene, anche se solo per un istante. Farebbe qualunque cosa per ottenere ciò che vuole: mentirti, ferirti, stuprarti".
June parla di Serena, ma sembra descrivere anche se stessa. Non sappiamo se e quanto ne sia consapevole e, soprattutto, non è chiaro quanto questa trasformazione sia permanente.
Ciò che è indubbio è che il personaggio interpretato (ancora una volta) magistralmente da Elisabeth Moss, non sta solo semplicemente elaborando la sofferenza subita. Anzi, forse il processo di elaborazione non è neanche iniziato.
Tutto ciò che ha affrontato e subito ha creato delle lesioni profonde, e quelle sul corpo - che non a caso ci vengono mostrate all’inizio dell’episodio - non sono solo che una piccola parte: non impiegheranno molto i lividi a schiarirsi, le ferite a rimarginarsi. Ci vorrà molto più tempo, invece, a guarire dai traumi che June si porta dentro. E forse, per alcuni di essi, il tempo non sarà neanche sufficiente. Quelle ferite dell’anima sono infatti profonde, e sanguinano una rabbia animale e spietata.
Da vittima a carceriera
Abbiamo già parlato della trasformazione di June lungo questa stagione e in particolare, nella recensione ai primi tre episodi La lotta per la sopravvivenza aveva tirato fuori una forza e una determinazione che non credeva di avere. Anche se è in salvo, non ha certo finito di lottare, ma gli obiettivi a cui mira e le motivazioni che la spingono segnano il confine tra eroina a sociopatica vendicativa. Nel momento in cui Mark Tuello le chiede perché avesse corso il rischio di salvare i bambini (anziché salvare se stessa) possiamo cogliere un indizio inequivocabile. Non lo ha fatto per i bambini, anzi, loro erano uno strumento: portarli via era l’unica cosa che potesse davvero colpire e danneggiare il sistema di Gilead e fare del male ai suoi esponenti.
Sembra condurci nella stessa direzione l’augurio pieno di rancore che rivolge a Serena, di perdere il bambino per provare parte della sofferenza che lei per prima ha causato a centinaia di madri e di famiglie.
Ma è la scena con Luke quella che fa più male: all’inizio sembrava quasi un momento di catarsi, nel quale June - dopo il duro confronto con Serena - essenzialmente si riappropria di ciò di cui Gilead l’aveva privata, e riprende il controllo della sua sessualità. Mano a mano che i secondi trascorrono però, la sensazione è molto diversa, e ne esce un quadro molto preoccupante, che peraltro compromette seriamente il già precario rapporto con il marito.
Non è il caso però di fare previsioni. Mancano ancora alcuni episodi al termine di questa stagione e deve ancora accadere molto. E soprattutto The Handmaid’s Tale in questi anni ci ha abituato a non dare nulla per scontato, perché i percorsi tracciati non sempre conducono ad un’unica destinazione.
Nonostante il focus introspettivo sulla parabola discendente della nostra eroina non sembra lasciare molto spazio alle altre linee della trama, in questo episodio vengono gettate le basi del futuro processo ai Waterford: la presenza di June come testimone chiave spariglia le carte, soprattutto per Fred e Serena che difatti, non troppo inaspettatamente, sembrano aver deciso di fare fronte comune.
Il processo costringerà June a ripercorrere e affrontare il suo doloroso vissuto e forse le darà modo di indirizzare la sua rabbia verso un’aspirazione di giustizia più salutare e meno effimera del desiderio di vendetta che sembra muoverla finora.
In un episodio di The Handmaid's Tale difficile e complesso, Elisabeth Moss riesce con maestria a portare sullo schermo un chiarissimo esempio di Sindrome Post Traumatica da Stress, dirigendo il suo personaggio verso una brutta china, che la fa pericolosamente somigliare alla sua nemesi.
madforseries.it
4,3
su 5,0