The Handmaid's Tale 4: la Recensione del Finale di Stagione

Scritto da: Maria Anna CappelleriData di pubblicazione: 

Attenzione: questo articolo contiene spoiler

La vendetta ti consuma, ti dà dipendenza, più ne hai più ne vuoi avere, più non puoi farne a meno. Il suo desiderio ti divora dentro. Ti cambia, rendendoti irriconoscibile, e cambia il tuo modo di vedere ciò che ti circonda. Il cibo non ha più lo stesso sapore, la musica non ha più lo stesso suono, i colori hanno meno sfumature. E tu non sei più quella che eri: la persona, la moglie e la madre che eri.

"Voglio davvero lasciarlo perdere" - "Fred?" - "Sì. Voglio concentrarmi sulla mia famiglia, su Hannah, su Nichole, e su Luke. Una buona madre sarebbe in grado di lasciare perdere"

June Osborne è logorata dal desiderio di vendetta, non riesce a pensare ad altro. Il fatto che le sue nemesi, Fred e Serena, stiano per tornare liberi, è l'ultima goccia: è solo la scusa che stava aspettando per agire, finalmente. Per avere la sua vendetta, finalmente.

Infatti, la frase pronunciata da Lawrence al termine del loro colloquio - finalizzato a organizzare lo scambio di Fred con le prigioniere - detta così, senza troppo clamore, è in realtà profetica: non le basterà, niente le basterà mai. Perché June è vittima di abusi e violenze di ogni genere, senza dubbio. Ma è anche vittima di una dipendenza subdola e implacabile. 

Tutta la quarta stagione di The Handmaid's Tale, in fondo, ruota attorno a questo istinto irrefrenabile, a questo bisogno impellente e bruciante, che ci ha condotto a questo episodio, The Wilderness (La natura selvaggia).
Il finale perfetto di una stagione perfetta: emozionante, intenso, ricco di colpi di scena.
La trama si muove in crescendo: le azioni, i dialoghi, i personaggi corrono in un turbinio che termina in quel bosco, nella terra di nessuno. 

Il ritorno di Difred

"Mi manca Difred" - "Manca anche a me".

Nel dialogo a tratti surreale che avviene con Fred Waterford, prima del suo rilascio, June asseconda il suo nemico giurato e aguzzino, facendogli credere che ci fosse del vero nel loro legame, o meglio, nel legame tra lui e Difred, che spesso, confessa l'uomo, gli manca. L'episodio è iniziato (e terminato) con June che parla dell'importanza di saper illudere il proprio comandante, e del fatto che, da questo, possa dipendere la sopravvivenza di un'ancella. Però forse non mente quando dice che Difred manca anche a lei. 
E infatti, ritroviamo Difred, insieme a tutte le altre ancelle: indossano di nuovo il rosso, ma questa volta è rosso sangue; sono senza mantella, ma ancora e per sempre unite da un legame (quello sì) indissolubile. E così, proprio con il metodo punitivo imparato a Gilead, in cerchio, si accaniscono contro Waterford, scatenando contro di lui la loro rabbia primordiale, selvaggia in una scena catartica, potentissima e da brividi.

Ritroviamo spesso nella serie questa disposizione circolare, e se dovessimo esaminare la simbologia di The Handmaid's Tale, ci accorgeremmo che il cerchio è una forma che ricorre spesso: durante il parto, nei linciaggi, nei "corsi" al Centro Rosso e, molto più semplicemente, nel modo iconico di disporre la gonna del vestito rosso quando le ancelle si inginocchiano:

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La scena del pestaggio di Fred, però, rimanda la memoria al finale della prima stagione, quando, come ricorderete, le ragazze sono costrette da Lydia a punire con una sassaiola Janine, posta al centro del cerchio. Emily è la prima a rifiutarsi di lanciare la pietra, ottenendo così un bel colpo in faccia con il calcio della pistola da parte di uno degli Occhi. Ma ciò non impedisce a June di decidere di non colpire l'amica e anzi di disfarsi del sasso, e così fanno poi tutte le altre, in una scena memorabile che ha rappresentato un primo, forse timido ma fondamentale, segno di resistenza e di unione tra tutte loro.

Questa volta nessuna delle donne si è rifiutata di lanciare le pietre, né di menare le mani, lanciandosi con una furia animale contro la loro preda. Nel buio della notte hanno portato il suo sangue su di loro come una medaglia, con orgoglio. Ma alla luce del giorno, calata l'adrenalina, terminata la catarsi e ottenuta la vendetta, bisogna fare i conti con le sue conseguenze.  
E così alla fine, i pochissimi dialoghi lasciano spazio allo scorrere delle scene conclusive in netto contrasto tra di loro: la luce della casa di Toronto di June, e il grigio del carcere di Serena, dove presto riceverà il moncherino di un dito del marito (quasi a voler suggerire che le ancelle quella notte avrebbero vendicato in qualche modo anche lei e il suo dito mutilato). L'immagine lugubre del cadavere appeso al muro - con l'iconica frase Nolite Bastardes Carborundorum campeggiante sotto di lui - e i raggi di sole che illuminano la stanza della piccola Nichole, che June vuole riabbracciare per l'ultima volta prima di andare via, sotto lo sguardo disperato di Luke che capisce subito cosa è successo e sa che difficilmente potrà accettarlo.

Non poteva finire in altro modo

Mi rendo conto che a molti possa non essere piaciuta la direzione intrapresa dalla protagonista o dalla serie. Forse in molti avrebbero preferito un arco narrativo positivo, nel quale June, una volta libera, avrebbe sì lottato per riavere Hanna, avrebbe anche fatto tutto ciò che poteva per aiutare la popolazione americana ancora a Gilead e avrebbe persino aiutato a smantellare quella dittatura repressiva dall'esterno, ma in modo virtuoso, pulito o comunque nei limiti di ciò che è socialmente accettato per un personaggio - per così dire - buono. Ma sarebbe stata un'altra storia, una storia di pace e serenità dopo una tragedia. The Handmaid's Tale è però una storia di guerra, e nella guerra non si fanno sconti, non si sottilizza sulla legittimità o la correttezza di un'azione o di una reazione. 

Qualcuno potrebbe replicare dicendo che però June non è più in guerra, è fuggita da Gilead, è libera. Ma lo è davvero?
La verità, mostrata definitivamente in questo episodio (ma anche nel penultimo, qui recensito), è che June, Emily e tutte le altre ancelle non sono libere, perché sono imprigionate nel loro trauma, incatenate alle loro ferite. E sono ancora in guerra, una guerra difficile da capire dall'esterno, perché avviene dentro loro stesse: è una lotta quotidiana combattuta contro la loro memoria, che non vuole dimenticare le violenze subite, ed è una battaglia incessante e devastante tra le persone che erano prima di Gilead e quelle che sono ora.

Per tutto questo e per come è stata impostata la quarta stagione sin dall'inizio, non poteva esserci un finale diverso. June ci dice quanto è stato importante, nel periodo trascorso come ancella, fingere, creare l'illusione, non solo per il suo comandante ma anche per se stessa. Ora però, non può più fingere, ci ha provato, davvero, a trovare la serenità in Luke, in Nichole, ma le è impossibile, estenuante, continuare a vivere nella finzione e nell'illusione. 

L'episodio chiude alla perfezione un cerchio, e contemporaneamente apre scenari inesplorati: per Serena, che ha già mostrato evidenti segni di emancipazione in modo del tutto incoerente rispetto a ciò che predica il sistema che ha contribuito a ideare, sarà ora da sola, non avrà più Fred a cui badare. E per June, che ha ora un piccolo esercito a disposizione, può contare sull'appoggio ai piani alti del governo degli Stati Uniti in Canada, e che ha due assi nella manica, Lawrence e Nick, pronti a venire in contro alle sue richieste. 

La quarta stagione di The Handmaid's Tale si conclude con un episodio emozionante e intenso, degno di tutta la serie. Segna una svolta definitiva per la storia, che mentre si chiude in un cerchio perfetto, allo stesso tempo apre a tante possibili implicazioni nella trama futura. 

madforseries.it

4,8
su 5,0

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