The Eddy: la Recensione della Miniserie Musical targata Netflix
Scritto da: Brian FreschiData di pubblicazione:
Benvenuti nella Parigi dei bistrot, dell'arte, di Audrey Tautou, del Pompidou, degli innamorati e degli spaccini che ti accoltellano in un vicolo. In questo delicato teatrino, non troppo lontano da Belleville, in una locazione di non si capisce bene dove ma che c'ha del degrado, Elliot Udo (che da qui in poi chiameremo Sconsolato per ragioni narrative) è un pianista newyorkese di successo, ora ritirato dalle scene causa brutti traumi ripetuti, che gestisce The Eddy, un jazz club parigino aperto con Farid, il suo migliore amico.
L'arrivo a Parigi di sua figlia Julie e una serie di avvenimenti poco simpatici ci spingeranno a conoscere, nel corso delle sue otto puntate, la storia delle vite che si intrecciano da The Eddy, dei proprietari, dei dipendenti e della band gestita da Sconsy, ognuno con un passato diverso, ognuno con una sua croce e ognuno con un bel bagaglio di casini da risolvere.
The Eddy è stato fin dal suo annuncio (torniamo nel 2017, anche se si biascica su di lui dal 2013) un progetto che, diciamolo, se contiamo le big heads che l'hanno generato uno può benissimo spanciarsi senza pensieri. E, in effetti, conferma parte delle sue aspettative.
Alla voce abbiamo la scrittura densa e morbosa di Jack Thorne, che è anche showrunner di His Dark Materials di casa HBO, al cash Alan Poul, che ha diretto e prodotto due robette come Six Feet Under e The Newsroom (e che qua dirige anche due episodi), e alla band tutta troviamo Randy Kerber, compositore enorme che (tra l'altro) ha lavorato anche con Ryan Gosling in La La Land, e Glen Ballard, che ormai ha subaffittato casa ai suoi Grammies.
E poi ci sono i primi due episodi diretti da un Damien Chazelle tornato alle origini che di musica ha giusto giusto parlato un pochino in Whiplash e La La Land (ma anche in First Man, se vogliamo esaminare il suono del silenzio e della sospensione come una composizione pregiatissima dell'animo umano e filosofeggiamenti vari) e che piazza le basi dei successivi episodi ai suoi altri talentuosissimi (seppur meno sperimentali) colleghi Houda Benyamina, Laïla Marrakchi e il già chiamato in causa Alan Poul, famosi e premiati per un botto di roba seriale o meno che però non sto ad elencare perché sennò mi perdo.
Quindi sì, ecco...la musica! La musica è il motore centrale di questa miniserie, così come quasi mai abbiamo visto nella nostra piccola sorellina tv, abituata giusto a Sanremo, X Factor o trash vari ed eventuali.
Tutto ha il sapore rugginoso di verità fin dalle prime riprese nervose e gli “inseguimenti” tremolanti a 16mm, ogni nota è creata da Ballard e Kerber apposta per The Eddy e registrata dal vivo dalla band composta tutta da musicisti bomba e attori assolutamente e pazzescamente non professionisti (tranne la cantante Maja, interpretata da una dolente Joanna Kulig già vista in quel capolavoro di Cold War).
E questa è la prima cosa che si nota di The Eddy: non è artificioso, non è finto scritto o apostrofato in modo melodrammatico da “la musica è lo specchio dell'anima, sono triste, aspetta che mi metto le cuffie e piango un po' con gli Smiths”. I brani sono così potenti, così intensi, lunghi e articolati che a volte ti scordi che il locale potrebbe andare a fuoco in qualsiasi momento e ti perdi nell'arte gargantuesca di 'sto pugno di disperati e nelle reazioni degli altrettanto disperati clienti.
C'è poesia e bellezza nell'aria, anche se ci troviamo in un limbo parigino di non so dove e in un buco di locale che dall'esterno sembra un negozio di vendita al dettaglio di gadgettistica per maniaci sessuali.
La musica (macché musica, dico "jaaazzz") in The Eddy è seminale, violenta, pedante e una condizione alla quale è impossibile fuggire, come dimostrato dal vissuto molto pomeriggio spompo domenicale dei suoi protagonisti.
Non è solo un espediente narrativo ma è LA narrazione in tutto e per tutto. L'anima centrale di sofferenze umane e comunque alla base anche di tutti i suoi problemi estranei. Tutti fanno parte del mondo musica, che quasi sembra che nella Parigi qui descritta, chi non c'ha un soldo da rattoppare i calzini c'ha di certo una cantina piena di impianti audio o il trisnonno che ha fondato il blues.
Vai a casa di un ragazzino e il fratello ha già una band che spacca il culo ai fagiani, mentre la nonna prepara il minestrone e canta che pare la sorella disconosciuta di Nina Simone. La figlia "chepallelamusica" di Sconsolato tocca il microfono e dopo due minuti ti piazza una ballata da ricordi nostalgici dell'infanzia più innocente e pura con aquiloni che nel locale chi non è totalmente sbronzo piange (sempre con singhiozzi intonati). Ti infili in un bar x e non fai in tempo a canticchiare una strofa che già tutta la clientela a caso ti segue in coro e improvvisa melodia e strumenti con padelle, piatti e quel che gli capita a tiro.
E te sei là sul divano consapevole che il tuo momento più “alto” con la musica è stato quando alle medie scrostavi il flauto dolce pieno di bava.
E, come il jazz risulta imprevedibile, così allo stesso modo è imprevedibile la vita dei protagonisti, ognuno con un proprio strumento che rappresenta la personale gioia e condanna, che si muovono e si sacrificano a jazzistico ritmo senza mai prendere fiato, sapendo che la loro gloria sarà fatta di briciole che poi si prenderanno le formiche ma chissene perché la musica è eccellenza e nulla di meno. Un rapporto che con diversi personaggi viene approfondito e decostruito con puntate in parte dedicate e che rendono la miniserie ancora più corale, che ti trascinano in empatia in modo discontinuo e improvvisato come la musica con cui mangiano, e che se da una parte sviano per un po' l'attenzione dello spettatore dalla trama principale di stampo thriller metropolitano che altrimenti sarebbe riuscita così così, dall'altra ci donano un po' di umano realismo (come nella quarta, tossica, puntata “Jude”, probabilmente la più bella della serie).
Sconsolato e Figlia creano una dinamica meravigliosa e sofferta con tutto il sapore dell'avrei voluto ma non ci sono riuscito, grazie anche alle interpretazioni di André Holland e Amandla Stenberg, che riescono a nascondere, dirottare e rendere ambigue le proprie emozioni e i propri pensieri al punto che quando esplodono la stanza trema e la birra si sgasa. E diciamolo: senza la capacità interpretativa di 'sti due probabilmente la trama sarebbe affondata nel suo caos tra non detti, intrighi, azioni finalizzate a mettere il culo nei calci ancora di più e roba così.
Ma questo non salva Sconsolato, che resta comunque una delle figure più sposate alla scalogna che ho visto di recente, e che più di una volta ti domandi se arriverà all'ultima puntata senza avere un infarto.
E in tutto 'sto bel casino di sentimenti, mancanze, me ne vado no tu no, incapacità di socializzare, povertà assicurata, il mio locale oddio il mio locale, droga e speranze sbiadite... Alla fine della scaletta la vera gioia è proprio lì, nella musica che unisce e che fa star bene realmente nonostante sia anche dannazione, che fare un disco è più importante di qualsiasi problema personale, che ti permette di evadere e di costruire un piano per il futuro meno scabroso di quello che sembra... E anche di essere tutti amicicci!
Parigi, poi, è l'altra grande protagonista. Fin dalla prima puntata una cosa è certa: qua nessuno limonerà sotto la Torre Eiffel. Se sei romantico, la tua ragazza ti tradisce con un ausiliare del traffico, se vuoi le passeggiate al chiaro di luna, il cielo è coperto da nuvoloni di disagio e sogni spezzati, e i croissant marciscono in qualche pozzanghera di lacrime. Non c'è una ripresa che sia una della Parigi inflazionata, intellettuale e alla moda, ma un fior fiore di quartieri etnici e casermoni urbani che coprono la vista dei personaggi, facendo apparire la Torre giusto un paio di volte in lontananza, un mondo fuori da tutta 'sta storia di maledetta sopravvivenza.
Buia, tetra, color topo morto, una Parigi di vissuto Vero, quindi, piena di culture, costumi, storie singole, devastate e preziose e franglais in ogni dove che si mischiano in un frullato che alla fine ti fa sembrare tutto il resto che prima conoscevi una cartolina con le principesse Disney che abbracciano unicorni.
Una miniserie non per tutti, quindi, dilatata, anti binge-watching, priva di soap, che richiede pazienza e che alla fine lascia più l'impronta dei suoi personaggi e della loro crescita che della trama in sé. Una miniserie di piccole voci e precarietà, dalla scrittura intelligente e la regia pensata, europea e mai pretenziosa. Un inno alla musica aggressivo, privo di momenti davvero rassicuranti e totalmente a disposizione della tua passione o della tua ignoranza in materia.
Che se sei musicista ti gasi di certo a guardarla e se manco sai tamburellare con le dita sul tavolo ti gasi comunque, ma poi vieni cazziato.
Forse una serie davvero di nicchia, destinata ad un insuccesso elevato e direttamente proporzionale alle sue qualità autoriali.
Ma oh, del resto parliamo di jazz, ragazzi...
The Eddy è una serie di grande bellezza e di amore verso il jazz. Una favola nera, di vita verissima, che cattura chi la guarda e lo costringe a scavare con zen nel passato e nel presente dei suoi protagonisti, molto spesso più interessanti di quel guscio da thriller incompiuto che mostra alla superficie.
Chi proprio non ha ispirazione lasci perdere, chi invece ce l'ha di brutto: luce soffusa, drink alla mano e via che si parte.
madforseries.it
4,0
su 5,0