Le Migliori Soundtrack delle Serie TV: Mindhunter - Angoli Nascosti
Scritto da: Brian FreschiData di pubblicazione:
13 ottobre 2017. Fingi di essere uno che proprio le pagine social non sai che sono. Che tipo c'hai tutti amici che guardano solo Rai1, che i siti d'informazione pensi siano l'Ufficio del Turismo versione mobile. Ma che comunque tutti c'hanno Netflix e quindi ce l'hai anche tu.
Sei lì che ciondoli lungo i polposi scaffali di Netflix come un ausiliare del traffico romano all'ora di punta. Tra una nuova esclusiva con Adam Sandler e una documiniseriefictionata su come funziona il tuo cervello mentre ti scaccoli. Poi fai che t'incappi su Mindhunter: locandina bella, cast che chi è sta gente, una sorta di apparente e sottile machismo superficiale. Popcorn-visione, pensi, roba da poltrona e occhi pesanti!
Che pensi, dai, che sarà la solita thrillerata dove tutto è grigio, la gente sta male, c'è il poliziotta grigio che sta male e tutto si risolve col morto (uno solo se sei fortunato), la scoperta dell'assassino e un finale agrodolce sullo sfondo della Louisiana. Quindi, oh, va bene così che non ho voglia di troppi pensieri. Ma poi leggi David Fincher... ma chi quello che ha fatto quella cosa con Brad Pitt che interpreta il bello e ambizioso un po' ingenuo nuovo arrivato, Morgan Freeman che interpreta il veterano saggio che ne ha vista di roba e Kevin Spacey che interpreta Kevin Spacey? Oh, non ci avevo mica capito niente di quello eh. Però qua siamo su Netflix, che la roba troppo complicata la fanno, sì, ma certo siamo sicuri pure che dopo aver staccato l'assegno qualche pollo lo sacrificano in un campo di grano con la luna piena a compiacere il dio share.
Vai, sarà un David Fincher ammaestrato, quindi me lo sparo!
E da qui puoi dire addio ad un sonno sereno.
Mindhunter, tratto dal libro Mind Hunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit di Mark Oslhaker e John E. Douglas è una fincherata di quelle che ci piacciono. Di quelle che sono il suo campo da sempre, che l'hanno consacrato a Maestro. Che l'Americaveral'Americapovera. Che proprio ci stai male ad ogni puntata ma che, proprio, è di quel male che ne vorresti ancora. Tipo: "Sì Fincher, strappami ancora il fegato, calpestalo, rimettilo a posto e poi ricomincia da capo!".
Ce ne sarebbe da parlare di Mindhunter che non basterebbe un editoriale, a partire dalla sua attuale produzione travagliata, da papà Fincher che sì la tv è il futuroh ma c'ho il cinema che mi chiamah quindi #ciaone e da folle deliranti di appassionati che lo aspettano al parcheggio, ma non per dargli pacche sulle spalle.
Quindi no, non oggi. Che oggi si parla sì di Mindhunter, ma di quel Mindhunter soffuso, nascosto, quello del sottotesto che ti accenno ma non ti svelo. Quello della sua splendida colonna sonora.
Mindhunter è la trasposizione della vera storia degli agenti FBI John E. Douglas e Robert Ressler, che qui si chiamano Holden Ford e Bill Tench, rispettivamente interpretati da Jonathan Groff (che già si era fatto notare per Looking) e da Holt McCallany (attore di un certo rango cinematografico e già volto noto di molte pellicole a tema gangster e crimini efferati), e la dottoressa Ann Wolbert Burgess, interpretata da una bravissima Anna Torv (avete visto Fringe, no?) primi tra i veri profiler degni di questo nome, quando ancora il mestiere non esisteva ufficialmente, e tra i coniatori di quell'espressione così psicologicamente adorata e inflazionata dalla narrazione tutta che è killer seriale. Le due attuali stagioni hanno percorso la genesi della loro squadra di ricerca alla fine degli anni '70, approfondendo alcuni dei loro casi più noti e scavando nel rigido strato d'inconscio dei suoi protagonisti. Il tutto a suono di synth e violini.
Partiamo da una prima mappatura: la colonna sonora di Mindhunter ha due facce oscure dello stesso distintivo, le tracce che fanno da sfondo all'epoca vissuta e altre originali, composte da Jason Hill e editate per le immagini da quel gran genio di Jonathon Stevens, che si appiccicano addosso alle sequenze e ai suoi volti come veri e autentici temi d'autore, ben predisposti a non mollarli.
Che, in sintesi, raccontano e sottolineano con velato sadismo quella linea di confine sfocata che c'è tra ciò che vediamo e ciò che invece si nasconde tra le pieghe claustrofobiche di una psicosi a cielo aperto.
In entrambi i lati, comunque, c'è una ricerca considerevole. Pescando “a caso”, possiamo goderci titoli come quelli della Blondie dei tempi migliori, un'eterna Ashes to Ashes del Duca Bianco o i meglio Alan Parson Project con I Wouldn’t Want to Be Like You, a segnare un drastico cambiamento professionale ed emotivo nella quotidianità di Holden. Pezzi che contrastano con l'immaginario mostrato, esaltando e dando forza al macabro senso di irrealtà presente nella mente di chi ospita la telecamera.
Indimenticabile, ad esempio, quella In Every Dream Home a Heartache dei Roxy Music che funge da ignobile red carpet per la prima apparizione di Dennis Raider, lo strangolatore di Wichita. Un pezzo che fa del climax il suo peggior incubo. Una nenia che lascia presagire ad ogni nota un cambiamento che sappiamo non arriverà, insieme alla stessa Intruder di Peter Gabriel, la quale sempre accompagna BTK nelle sue efferate evoluzioni, fino alla Cease to Exist che tasta il terreno e fa vibrare l'aria in attesa del suo creatore, Manson.
Ma anche momenti di rara leggerezza, come quello accarezzato dall'intramontabile Psycho Killer dei Talking Heads quando, alla fine del secondo episodio della prima stagione, Ford e Tench raggiungono per la prima volta in ascensore il loro nuovo ufficio, giù nel luogo più buio e nascosto di Quantico. Dove tanti casi verranno studiati e altrettante menti comprese, accolte, sezionate nel bene e nel male, facendo attenzione a non perdere la propria, di testa.
Scena simile, ma non proprio, al finale del quarto episodio. C'è sempre un ascensore, ma questa volta con Ford, Tench e la dottoressa Carr che formano ufficialmente il dream team di Scienze Comportamentali dell'FBI, con la generosa eccezione in crescendo di Interstellar, del rapper messicano/canadese Omar LinX.
Di minor peso epocale, ma di notevole intensità drammaturgica è invece il lavoro svolto da Jason Hill, compositore eccelso e visionario che ha esordito nel cinema con la bellissima colonna sonora di Gone Girl (sempre di David Fincher) per poi approdare in casa Netflix, dove ormai è compositore chiave di diverse serie presenti e future. A lui si devono, tra la prima e la seconda stagione, tracce di una densità buia, squallida, insondabile, che permane nelle pareti, nei fitti boschi, nelle strade poco battute, e in ciò che hanno visto e non possono raccontare se non attraverso le sviste umane. A partire dal criptico Main Theme che ci allaccia ad un universo quasi fiabesco, che ci illustra un passaggio, un percorso tra gli alberi, un sentiero di fate oscure che non vedono l'ora di sussurrarti i loro segreti all'orecchio.
Una sincronia che appare inattesa e che calca gli spigoli dei racconti assassini per bocca dei suoi stessi criminali, senza mai smussarli. Come la sorprendente sequenza in cui Holden intervista Edmund Kemper, un uomo sulla carta orribile, spregiudicato, capace di uccidere povere ragazze, mutilarle e cibarsi delle loro carni, ma che si dimostra di una lucidità disarmante, di un'intelligenza abissale quanto il baratro della sua follia e che scatena in te, ignaro spettatore, più di un crash nervoso per la naturale predisposizione alla simpatia che genera questo omaccione, che ti tortura, che ti fa mettere in dubbio ogni singolo verbo pronunciato dalla corte, fino a lasciarti sospeso, muto e allibito quando rivela le sue azioni per la prima volta... E la sinfonia Academics lì che ti aspettava, nascosta, in attesa nelle doppie facce di Kemper, e te che vorresti trovarti da qualunque altra parte in quel preciso momento.
Oppure l'imprevedibile Weird Thing, con Ford in ascensore, sovrappensiero, mentre noi aspettiamo un colpo di scena che non arriva e che, invece, lascia una scia di inquietante immobilità, in un perfetto connubio tra musica e immagini.
Una composizione costante, che non ti abbandona mai. Resta nel silenzio, per poi ricominciare, tanto da sembrare un'unica grande sinfonia del Male che, in quanto tale, è destinata ad evolversi di puntata in puntata, di stagione in stagione.
Se la prima stagione era votata alla sospensione e all'immobilismo. La seconda echeggia in una chiave di orrore vero, di incubi ad occhi aperti, di voci infantili, infernali, che ti afferrano la mente e aspettano che vacilli, a partire da Drop Shots che fa da apripista ad un incubo che verrà e che ti fa capire che se prima non si scherzava, ora si scherza ancora meno. Nella seconda stagione tutto è messo in discussione, dalla psicologia dei protagonisti, al loro mestiere, al mondo che li circonda, in una disillusione tale da chiedersi se questa società, capace di imprimere orrore anche nel privato, ha ancora delle speranze, a chiedersi per cosa stai studiando, cacciando, analizzando. E questo germe di Male prende le redini della vita di Tench, in una sottotrama che svia l'attenzione da quella principale, prendendo il sopravvento e donando un malessere puro che ha come sonorità l'allucinante Silk Drape, capace di aprire un varco tra la mente dei suoi personaggi e il tuo televisore.
Cori che si sovrappongono anche nella rivisitazione del theme portante, in Mindhunter Main Titles by Choir. Agghiacciante.
Atmosfera che ti fa sbiancare, che nasconde rumori striscianti, di follia pura, e che prende congedo con la breve ma altrettanto terrificante Trophies. Un arrivederci, più che un addio. Una certezza di ritorno.
E ciao ciao sonno.
La colonna sonora di Mindhunter vede la sua buona riuscita non solo nell'occhio esperto del suo regista, non solo nella visione di Jason Hill, ma anche dal magnifico lavoro di Jonathan Stevens, maestro del sync, collaboratore storico di Fincher (da The Social Network a Zodiac, per dirne due) e genio del collante, detto in modo becero.
Jonathon prende le belle riprese di Fincher costruite o pre-costruite per un fine ultimo, la ispirata colonna sonora (sia originale che non) e, in un editing musicale a tu per tu con il montaggio di Kirk Baxter, genera alcune delle sequenze migliori dell'intera serie. Una serie che, lo ricordiamo, viaggia sui binari dell'intensità emotiva e, incredibilmente, anche fisica e che una qualsiasi nota fuori sincro è capace di spezzare l'incredulità in un battito d'ali di mosca. Una colonna sonora che ti veste così come veste le immagini che racchiude. Come la splendida sequenza a carrellata sulle note di Fly Like an Eagle di Steve Miller.
Altro momento presente nella prima stagione e parte di una leggerezza che, ben presto, sarà solo un ricordo.
Mindhunter è una di quelle serie che vivono con e per la musica che incamerano. Che sarebbero sopravvissute lo stesso anche nel mutismo totale, ma senza lo spessore necessario a scoprire i molteplici angoli della mente umana, a ricostruire il percorso di un pungo di pionieri votati a rendere chiari i perché del male e non solo i come.
A ricordarci che la risposta non è scontata, che è probabilmente destinata a restare un mistero e che, in caso di verità, non è detto che ci convenga venirne a conoscenza.
Di seguito la playlist contenente tutti i brani di cui abbiamo parlato in questo articolo. Vi invitiamo a seguirci su Spotify per non perdervi le prossime liste. Nel caso ve lo foste perso, vi riproponiamo anche il nostro precedente articolo di questa rubrica.